LA GRANDE CASA SOPRA BELLAGIO Cap. 1
Ci sono tre carrozzabili che portano a Bellagio: la prima parte da Como, la seconda da Lecco e la terza da Erba. Quest'ultima ha una variante, una deviazione che descrive un semicerchio attraversando zone poco abitate: un'area verdissima con sparsi casolari e qualche villa nascosta tra gli alberi d'alto fusto, una vera oasi di pace non ancora contaminata dal turismo del lago. In località Pra' Filippo un ricco notaio milanese di origini comasche, Lodovico Bernasconi, acquistò, all'inizio del Novecento, una grande casa circondata da piante secolari e da un vastissimo prato pianeggiante che in Primavera si ammantava di fiori. Il lago da lì non si poteva scorgere, ma era poco distante e tutti ne avvertivano la presenza per la piacevole brezza che arrivava fin lassù. Comunque i proprietari avevano anche un piccolo posto barca alle porte di Bellagio e, se volevano fare una gita sul Lario potevano raggiungerlo in meno di un quarto d'ora.
Con il passare degli anni la casa fu ereditata dall'unico figlio del notaio, insieme allo studio, che amava trascorrervi le ferie estive e magari qualche fine settimana sempre che gli impegni di lavoro glielo permettessero. Aveva sposato una ricca brianzola, ultimogenita di un industriale monzese, che apportò delle migliorie sia al corpo principale della proprietà che alle due dependances.
Queste ultime erano molto lontane dalla grande casa e raggiungibili solo a piedi attraverso dei sentieri in terra battuta che un giardiniere di Civenna teneva sempre puliti così come manteneva in ordine le piante del giardino e le aiuole disseminate irregolarmente lungo il viale d'ingresso. La proprietà era interamente recintata e uno dei due edifici secondari, quello più interno rispetto alla carrozzabile da cui lo isolavano due file d'abeti, era stato aggiunto dal vecchio proprietario, poco prima della vendita, prendendo a modello uno chalet di montagna tutto in legno con le finestre a riquadri ed il tetto spiovente. Una casettina delle bambole di cui non si comprendeva l'utilità e che il notaio e suo figlio non avevano mai utilizzato nemmeno come deposito. Il giardiniere vi accatastava quindi i propri attrezzi ed andava a riposarsi su uno sgangherato divano nelle ore più calde della giornata.
Raggiunta la quarantina la signora Ottilia Bernasconi iniziò ad accusare malanni di ogni genere, per la maggior parte immaginari, per cui il marito pensò bene di affidarla alle cure di un medico ben introdotto nel giro dell'alta borghesia milanese. Lei affermava di sentirsi sempre fiacca e depressa e solo a Pra Filippo, dove l'aria purissima e la quiete del posto riuscivano a rilassarla, riusciva a rigenerarsi, a distendere i propri nervi, a condurre un'esistenza quasi normale senza assumere troppi medicinali, la maggior parte dei quali, in verità, le venivano prescritti senza che ci fosse un vero bisogno al solo scopo di tapparle la bocca. Il marito, che iniziava ad innervosirsi per la situazione, cercò dapprima di venirle incontro raggiungendo più frequentemente la grande casa, ma spesso gli era d'impedimento il lavoro e allora la moglie iniziava a tormentarlo mostrandogli il proprio viso solcato dalle rughe "ogni giorno più profonde" che, a suo dire, l'aria malsana della città le aveva procurato. Appena il figlio ebbe l'età per conseguire la patente di guida il notaio tirò un sospiro di sollievo, gliela fece ottenere e lo nominò sul campo autista personale della madre. La signora rimaneva quindi nella grande casa per la gran parte dell'anno in compagnia di un'anziana domestica ed ogni volta che doveva tornare a Milano accusava forti dolori alle articolazioni ed aveva vampate di calore, le scalmane della menopausa, niente di più e di diverso, ma guai a farglielo notare.
Spesso le facevano visita tre amiche di Cernobbio, quattro case in croce, non della più nota località sul lago, a cui piaceva spettegolare per tirar sera ammazzando la noia dei lunghi pomeriggi oziosi. Ottilia parlava e le tre assentivano interrompendo quel profluvio di parole con commenti spesso inopportuni. La Virginia borbottava in dialetto imbastendo discorsi che a volte non avevano nè capo, nè coda, la Maria vegia si mostrava sempre scandalizzata, qualunque fosse l'argomento della conversazione e la Maria del curat, che aveva un fratello sacerdote a Domaso, citava a sproposito versetti della Bibbia e del Vangelo intervenendo senza che le sue interlocutrici le avessero chiesto un parere. Così si tirava sera, le tre comari tornavano a piedi nella vicina Cernobbio e Ottilia, dopo la consueta tisana al rosmarino, andava a coricarsi, d'Estate e d'Inverno, indossando una camicia di flanella e sotto una montagna di coperte.
Il medico di Bellagio, appena gli impegni di lavoro glielo consentivano, raggiungeva la grande casa con la propria vecchia Seicento non tanto per visitare la paziente che gli era stata raccomandata da un illustre collega di Milano, quanto per gustarsi, all'ombra di un grande platano, la fresca birretta che gli veniva offerta d'Estate o il the alla menta che gli preparavano d'Inverno. Alternava quindi visite di routine, a scadenze concordate con il notaio ed il collega, con altre di cortesia per omaggiare l'illustre paziente venuta dalla metropoli e magari rifilarle, dietro sua insistenza, qualche innocuo sciroppo.
Un giorno d'inizio Luglio il medico si infortunò in montagna, si ruppe una gamba salendo dalla colonia Bonomelli al San Primo. Ottila, senza pensarci due volte, fece accorrere da Milano il figlio affinchè provvedesse a prelevare il professionista, che evidentemente non era in grado di mettersi alla guida, dal suo ambulatorio di piazza Mazzini, per condurlo da lei.
Silvano, questo il nome del ragazzo, non ne poteva più di questa situazione, ma accettava, suo malgrado, di trascorrere le vacanze a Pra Filippo e di scarrozzare, durante tutto l'anno, la madre su e giù dalla metropoli alle falde del monte. Tutto sommato era un bravo figliolo molto legato ai genitori e capiva le esigenze del padre che, per star dietro alle ubbie della madre, rischiava di trascurare il lavoro. Il ragazzo aveva da poco compiuto i vent'anni ed avrebbe senz'altro preferito spassarsela con gli amici dell'università e con le ragazze della compagnia, ma questo gli toccava e questo accettava con rassegnazione.
Arrivò dunque nella piazzetta su cui si affacciano parecchi negozi di souvenir, bar e ristoranti e, appena svoltato l'angolo dove inizia la scalinata che conduce alla Parrocchiale, entrò nell'ambulatorio.
La sala d'attesa era semivuota, evidentemente a Bellagio pochi si ammalavano, ma il suo ingresso fu segnalato da una campanella applicata alla porta d'entrata. Venne a riceverlo, dopo alcuni istanti, una stupenda ragazza castana, così diversa dalle altre ragazze che incontrava quando scendeva in paese, tutte bruttine escluse le turiste, ma queste non gli interessavano. La giovane, che indossava un camice da infermiera parecchio attillato capace di esaltarne le forme, ma lungo sotto il ginocchio, gli domandò se avesse un appuntamento con il medico. Il giovane si sentì, senza alcun motivo, imbarazzato e certo arrossì e balbettò nel rispondere. "Sono il figlio di Ottilia Bernasconi, la paziente di Pra' Filippo: mia madre mi ha mandato qui per dare un passaggio al dottor Luini che, mi ha riferito, non riesce a guidare a causa di un infortunio alla gamba". La ragazza squadrò il giovane, gli sorrise e replico: "Ah si, mio padre mi ha detto che saresti venuto. Appena avrà terminato con le visite salirà a casa vostra".
Silvano si mise in attesa con gli altri due pazienti, ma non riusciva a pensare che alla figlia del medico: chissà se anche lei sarebbe salita alla grande casa con il padre? Lo sperava intensamente!
La ragazza, Erica, quella volta non salì a Pra' Filippo, ma tempestò Silvano di raccomandazioni: come far montare il padre in auto, farlo accomodare sul sedile posteriore, fargli spazio davanti e come schivare le grosse buche della strada. " Dopo la cappelletta, quando girerai a destra, la carrozzabile è più simile ad un tratturo: guida piano ed evita di finire in uno di quei crateri perchè- aggiunse con un pizzico di malizia- mio padre non è un malato immaginario!".
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