Uskok 23
Uskok 23
In quelle ore di grande confusione gli
ufficiali delle caserme dislocate sul
territorio istriano si consultavano tra loro per decidere come muoversi mentre
parte dei militari aveva già abbandonato
la penisola per cercar di raggiungere zone meno pericolose. Nessuno poteva
dirsi al sicuro anche se i più esposti erano, oltre ai soldati di qualsiasi
ordine e grado, i dipendenti statali e comunali compresi gli insegnanti, gli
appartenenti al clero ed in genere
coloro che, magari ingenuamente e senza eccessivo entusiasmo, avevano assecondato
le iniziative del regime. Era difficile
stabilire se avesse maggior peso la questione etnica o quella politica o se si
volessero semplicemente vendicare veri o presunti torti subiti: in genere gli
istro veneti e gli italiani giunti da altre regioni venivano considerati
“nemici del popolo” perché, con notevoli
eccezioni, poco propensi ad accettare le
idee comuniste mentre gli slavi avevano maturato del risentimento nei confronti di una categoria di persone che
consideravano privilegiata. In questo erano spalleggiati anche dai dirigenti del
PCI che avevano emanato delle direttive tutte a favore dei titoisti
raccomandando ai loro simpatizzanti una totale collaborazione. Comunque la
maggior parte degli istro veneti e degli slavi autoctoni, avendo sperimentato sia il dominio
austriaco che quello italiano entrambi,
pur nella loro diversità, accettabili non riusciva ad adeguarsi al nuovo corso che
si voleva imporre e che personaggi fanatici e settari, oltre che culturalmente diversi, intendevano statuire. I più non erano disposti a tollerare
l’ingerenza dello stato in ogni aspetto
della vita civile dalle attività economiche, alla scuola, alla religione: uno
stravolgimento di usi e costumi che
terrorizzava.
Marcello si era unito ad altri giovani istriani che, constatato il
disfacimento dell’esercito italiano, cercavano di contrastare i partigiani comunisti di propria iniziativa, arruolandosi
nella Milizia di Difesa Territoriale oppure in supporto ai tedeschi. I rossi con la
stella sulla berretta compivano attentati ovunque, agivano con destrezza e velocità poi sparivano nei boschi lasciando la
popolazione inerme in balia di eventuali rappresaglie. Parecchie azioni di
contrasto i militari germanici le
effettuarono senza riuscire a distinguere, nella concitazione del
momento, coloro che li consideravano dei
liberatori da coloro che invece supportavano
i drusi: ci andarono quindi di mezzo persone innocenti e spesso gli ufficiali
furono costretti a scusarsi per delle imperdonabili azioni ai danni di chi in
realtà li considerava dei salvatori.
Si consumarono vendette personali e chi
sino a pochi giorni prima era un amico diventava improvvisamente un delatore.
La gente iniziò a considerare l’Istria
una trappola per topi ed a organizzare la fuga, unica alternativa possibile.
Ersilia, pur non avendo mai utilizzato il
denaro frutto della rapina ai danni
della società mineraria, era riuscita ugualmente a raggiungere una solida
posizione economica, a riottenere i terreni venduti per finanziare la
fallimentare attività di Giuseppe ed a acquisirne di nuovi tra quelli strappati
alle acque del Cepich e resi fertili con il duro lavoro. Si faceva aiutare da
una mezza dozzina di stipendiati e da qualche ex minatore che aveva preferito
abbandonare un mestiere faticoso e pieno di imprevisti: a conti fatti era una
persona agiata il che la rendeva potenzialmente
soggetta ad eventuali ritorsioni.
Nemici del popolo e sfruttatori erano
considerati anche coloro che, in maniera
assolutamente legittima, avevano raggiunto un
discreto benessere economico e per questo motivo erano contrari a che si
stabilisse un nuovo corso basato su un’ideologia in cui non si riconoscevano:
non si salvava nessuno dal farmacista, al bottegaio, al piccolo proprietario
terriero, all’impiegato statale con uno stipendio sicuro, ma più in generale anche chi, pur non avendo una florida
situazione economica, era apertamente contrario o quanto meno diffidente nei confronti di un’ideologia che considerava
estranea oltre che fallimentare. Senza porsi eccessivi problemi i partigiani
prelevavano le persone giudicate ostili al nuovo corso e le passavano per le
armi o le gettavano vive o morte nelle foibe dopo un processo farsa oppure
saltando anche questa per loro inutile perdita di tempo. In quest’ottica
l’appartenenza etnica rivestiva un’importanza secondaria perché lo scopo dei
partigiani era principalmente quello di imporre il comunismo ed in quest’ottica
perversa venivano giustiziate sia persone
del gruppo italiano che, in minor misura, di quello slavo.
Catina, per il tramite di Mikula ed
Antonija, riusciva a comunicare con Olga, la proprietaria dell’Agnello: da
rivali erano diventate ottime amiche accomunate dalla comune disgrazia. Da
locali di svago e ritrovo le due trattorie si erano infatti trasformate prima in
basi logistiche per i titoisti ed ora, dopo il ritorno dei tedeschi, in luoghi di riunione per i militari teutonici. Le due commercianti si
sentivano dunque particolarmente esposte a possibili ritorsioni sia dall’una che dall’altra parte
ed alla fine, dopo essersi a lungo consultate, decisero di chiudere entrambe le
botteghe e di ritirarsi in Breg, tre case in croce al sommo di una collina che
sovrasta Pisino. Anche Ersilia aveva chiuso la propria abitazione al margine
dell’antico lago e si era adattata, con il minore dei figli, quello troppo giovane per il
servizio di leva e con il marito Gavino, a vivere in un fienile in una località
remota dopo aver licenziato i contadini e nascosto in una
porcilaia il contante ancora disponibile.
Ogni passo falso poteva trasformarsi in
tragedia e se le arterie principali erano percorse e presidiate dalle camionette tedesche, dai ripidi sentieri
che salivano al culmine delle colline, dai boschi che si infittivano verso le
cime e dai semidiroccati casolari che spuntavano qua e là piccoli nuclei di partigiani, come animali in
cerca di una preda, sbucavano all’improvviso compiendo sanguinosi attentati non
solo a danno dei tedeschi o dei giovani istriani che li supportavano, ma anche
della popolazione inerme che non aveva i mezzi per difendersi. Durante una di
queste sortite Gavino ed il figlio, che avevano cercato di opporsi alla
violenza dei drusi e quindi si erano
pericolosamente esposti soprattutto dopo aver riconosciuto tra i partigiani un
ex minatore, furono uccisi e i loro
corpi vennero gettati nella medesima voragine sul cui fondo erano accatastati i
cadaveri di altri oppositori al regime che si voleva instaurare o, a torto o ragione, considerati tali. Non si
era più sicuri in nessun luogo e la vita di una persona poteva dipendere da un
semplice imprevisto, da particolari stati d’animo o da un oscuro sentimento di
rivalsa.
Nel frattempo Marcello aveva spedito
Concettina dai genitori in Sicilia: era riuscito a convincerla usando le
maniere forti perché lei desiderava rimanere accanto al marito in una terra che ormai considerava
propria e contribuire alla difesa di quella martoriata regione.
Catina, Olga ed Ersilia, che erano rimaste sole ed inermi in balia degli
eventi, non riuscivano più a fidarsi di nessuno e quindi progettavano la fuga.
Le tre donne si riunirono in Breg nella casa dei genitori di Catina per
mettere a punto un piano che consentisse loro di lasciare l’Istria portandosi
appresso almeno una parte dei profitti che avevano accumulato in tanti anni di duro
lavoro. Stivarono le banconote in una capiente valigia, un terzo a testa e si accordarono con l’autista della corriera
che da Pisino raggiungeva Parenzo, un grande amico di Marcello, affinchè il bagaglio
venisse occultato sotto il pianale del torpedone.
Non fu un tragitto agevole: subirono due
perquisizioni da parte dei tedeschi in prossimità di Antignana e Mompaderno,
poi avvistarono alcuni partigiani prima di arrivare a Parenzo. Il veicolo fu
costretto a fermarsi, tre loschi figuri vi salirono sopra e subito si misero ad
urlare impaurendo i viaggiatori. Si
esprimevano a tratti in slavo per poi passare all’istro veneto con un accento foresto:
“Leandro Socovizza, salta fora che gavemo qualcossa per ti”. Il poveruomo era
un anziano ex podestà di un comune nei dintorni di Pisino che viaggiava, con il
nipotino in grembo, verso Parenzo per raggiungere la figlia che stava
preparando la fuga sull’altra sponda dell’Adriatico. Catina si rese conto della
situazione e, approfittando di un diversivo, strappò il ragazzino dalle braccia
del nonno, gli fece segno di tacere e lo sistemò in mezzo alle amiche. Le due donne, per la tensione, iniziarono immediatamente a piangere attirando
l’attenzione dei tre prepotenti che si avvicinarono incuriositi e minacciosi. Si
erano vestite di nero concordando che, in caso di bisogno, avrebbero raccontato
di doversi recare a Parenzo per presenziare al funerale di una parente. Il
ragazzino fu fatto passare per un nipote
di Catina che lo aveva portato con sé non sapendo a chi affidarlo: “ El putel
xe mio nipote e lo go portado con mi parchè non so dove lasarlo”. I partigiani
avevano fretta e non si soffermarono a lungo: temevano di essere scoperti dai
tedeschi e perciò fecero scendere Leandro dal mezzo e lo spintonarono verso il
bordo della statale dileguandosi poi nel sottobosco. L’autista riprese il suo
posto alla guida, gli altri passeggeri tirarono un sospiro di sollievo ed il
ragazzino si nascose tra Olga ed Ersilia tremando come una foglia, ma senza proferir
parola.
Di Leandro si persero le tracce: anni più
tardi un testimone oculare rivelò di averlo incrociato nel castello di Pisino
mentre era in corso uno dei processi farsa intentati contro i nemici del
popolo, ma la notizia non ebbe alcun riscontro. L’ex podestà sparì nel nulla
come tanti altri suoi compagni di sventura.
A Parenzo non tutti i militari avevano
tentato, con alterni risultati, la via della fuga: un maresciallo della guardia
di Finanza di origine ferrarese e con moglie comasca era riuscito ad
organizzare un sevizio d’ordine, composto da soldati e civili, per arrestare la
furia partigiana. Per qualche giorno riuscì nel suo intento, poi venne
catturato dai titini e sarebbe forse riuscito a farla franca se le voci di
un’avanzata tedesca non avessero accelerato le operazioni di “pulizia”
orchestrate dai partigiani: la sua salma venne più tardi recuperata dalla foiba
di Vines mentre la moglie ed i figli avevano
rimediato un passaggio su un peschereccio verso l’altra sponda dell’Adriatico.
Raggiunsero, dopo varie peripezie, Cernobbio sul lago di Como, luogo d’origine
della donna e qui si stabilirono cercando di dimenticare ciò che avevano subito
in Istria.
Sullo stesso peschereccio, dopo qualche
giorno, si imbarcarono Olga, Catina ed Ersilia portandosi appresso il nipote di
Leandro che, dopo la scomparsa del nonno, era diventato muto per lo spavento. Anche
la valigetta con il denaro fu messa in salvo ed il suo contenuto servì alle tre
donne per rifarsi una vita nelle immediate vicinanze di Venezia dove rilevarono
una trattoria con alloggio.
Questi non furono che li primi accenni di
un esodo che avrebbe raggiunto, qualche anno più tardi, proporzioni bibliche: parte della popolazione
locale sperava infatti che le cose si
sarebbero “aggiustate” ed i più erano restii ad abbandonare le proprie case ed
i propri affetti.
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