Uskok 22

 USKOK 22

Catina era troppo impegnata con il lavoro in trattoria per rendersi conto  compiutamente dei grandi cambiamenti che stavano interessando,  tutti in senso negativo, l’Istria: in qualche  occasione alcuni avventori avevano inveito contro il governo, ma lei non desiderava intromettersi in questioni politiche che riteneva non la riguardassero. Il marito, gravemente ammalatosi prima che scoppiasse la guerra, aveva voluto cambiare il cognome della famiglia e la modifica era stata registrata sulla Gazzetta ufficiale del regno: se qualche indizio  di simpatia nei riguardi del  regime si voleva trovare questa poteva essere l’unica traccia cui non erano però seguite altre azioni che rivelassero particolari orientamenti politici.

Nel lavoro si faceva aiutare da due croati: l’anziano Mikula che aveva l’ordine di fischiare, per non ubriacarsi, durante il travaso del vino in cantina e la giovane e bella Antonija, una delle sorelle di Rita, che era diventata l’attrazione del locale. Entrambi lamentavano continue ingerenze nella vita dei contadini slavi sia da parte delle autorità centrali che di quelle periferiche, ma Catina ascoltava senza replicare: allargava le braccia in segno di disapprovazione o di impotenza “No me intrigo”  desiderando rimanere equidistante per non scontentare i clienti di entrambe le etnie.

Ogni anno si recava dai contadini della zona per ordinare il vino, ma il prodotto migliore, quello del Bepi Suran , riusciva sempre ad accaparrarselo Olga della trattoria dell’Agnello. Aveva più volte tentato di arrivare per prima, ma non c’era verso: la concorrente riusciva sempre ad anticiparla. Si mise quindi d’accordo con Mikula: egli era grande amico e compagno di bevute di Piero che lavorava presso la trattoria della rivale. Il suo aiutante avrebbe dovuto  consegnare due bottiglie di vino di pessima qualità  al compare affermando di averle ricevute dal Bepi Suran, accadeva ogni anno,  come campionatura della nuova vendemmia. Se Olga avesse abboccato, Catina avrebbe avuto campo libero. Le cose andarono però diversamente: Mikula e Piero effettivamente si incontrarono, come concordato,   in Potok dove il torrente si allargava formando una pozza, ma lo sciagurato garzone ed il dipendente della concorrenza si scolarono le due bottiglie e, essendo entrambi fini intenditori, le giudicarono eccellenti. Poi, rendendosi conto di quello che avevano combinato, andarono a Gallignana e si fecero riempire due fiaschi con il peggior vino della zona, quello meno caro, l’unico  che si potevano permettere attingendo dalle loro sempre sguarnite saccocce.

Catina ottenne comunque ciò che voleva e, per la prima volta dopo anni, riuscì a rifornirsi da Bepi  aumentando il prestigio della propria trattoria.

Così trascorrevano le giornate in una sorprendente  tranquillità considerando  che la guerra era iniziata da tempo: in questo periodo infatti, più che degli eventi bellici di cui arrivavano notizie frammentarie, in Istria si parlava della  terribile disgrazia dell’Arsa.

Circa duecento minatori persero la vita nei pozzi minerari in seguito ad un’esplosione, ma la tragedia venne quasi ignorata al di fuori dei paesi vicini e dell’immediato entroterra: al disastro non fu data rilevanza sia da parte del regime,  che aveva aumentato le estrazioni di materiale senza adottare maggiori misure di sicurezza e quindi aveva grandi responsabilità per l’accaduto, sia dalla parte croata che non si sentiva coinvolta ed anzi avrebbe desiderato che la città mineraria, un elemento estraneo al territorio, sparisse dalla faccia della terra.

Ancora una volta la ragion di stato aveva preso il sopravvento sulle umane vicende non lasciando spazio alla  compassione ed  alla solidarietà!

I veri problemi iniziarono nell’Estate del 1942 con il sabotaggio della linea ferrata e con altri episodi ai danni delle caserme dei carabinieri e di alcuni edifici pubblici:  bande armate, costituite per lo più da comunisti dell’interno e da qualche contadino della zona convenientemente indottrinato,  sbucavano dai boschi, compivano gli attentati e facevano perdere le proprie tracce in un crescendo di azioni che spesso si ritorcevano contro una popolazione inerme ed impaurita.

Catina, pur iniziando a preoccuparsi per l’evolversi della situazione, riteneva che i  mutati rapporti tra le diverse etnie, ammesso che si trattasse solo di questo, fossero nient’altro che una temporanea  reazione  della parte slava in seguito alle annessioni di territori sloveni e croati al regno d’Italia. Pensava che in Istria non ci sarebbero state ulteriori violenze perchè i rapporti tra gli italiani e gli slavi della zona rimanevano ancora abbastanza buoni: alle spalle c’era una tranquilla e secolare convivenza. D’altro canto cosa  le avrebbero potuto rimproverare? Sotto l’Austria aveva frequentato le scuole croate, in famiglia e nei rapporti di lavoro  usava sia l’istro veneto che il dialetto slavo, in trattoria riceveva con la medesima cortesia rappresentanti di entrambe le etnie, aveva dei dipendenti croati e, ultimamente, acquistava il vino dal Bepi Suran che lavorava solo con personale slavo…….

“Gnente go fato de mal e niente devo temere” rispondeva all’affezionata Antonija che le riferiva di come la situazione stesse cambiando e certamente non in meglio.

Nella sua ingenuità non aveva compreso che la questione etnica era solo un pretesto, un primo passo  affinchè si affermasse, senza incontrare ostacoli, l’ideologia comunista. Chi la pensava diversamente doveva essere completamente rieducato o velocemente eliminato, non esistevano mezze misure.

E la situazione effettivamente cambiò nel Settembre del 1943 quando le strutture politiche e militari italiane si disgregarono e centinaia di soldati in fuga chiesero aiuto ai civili che, nella maggior parte dei casi, li soccorsero.

Catina aveva più volte servito nel proprio locale il colonnello della piazza di Pisino, un calabrese piuttosto arrogante sotto la cui giurisdizione si trovavano sia centinaia di soldati di fanteria che poche decine di carabinieri del dislocamento. Il tipo non le era mai andato a genio: trattava tutti dall’alto in basso ed evidentemente si sentiva superiore sia agli slavi che agli istro veneti.

Due fratelli di Antonija si erano intanto aggregati alle bande titoiste e spesso lei li sentiva parlare delle nuove imboscate che intendevano mettere in atto. Quando venne a conoscenza di ciò che era appena accaduto e cioè del segreto accordo tra il colonnello italiano ed i capi partigiani,  corse da Catina per avvisarla di quello  che sarebbe accaduto e del pericolo che potevano correre anche delle persone estranee ai giochi politici ed in nessun modo compromesse con il defunto regime.

In cambio di un salvacondotto che gli lasciasse via libera verso Trieste l’ufficiale calabrese aveva infatti concordato di cedere le armi e di denunciare chi gli si fosse rivolto per chiedere protezione: un esecrabile tradimento  nei confronti di una popolazione inerme.

Anche Catina, in questo clima di congiure,  aveva  qualcosa da temere come gerente di un esercizio in precedenza molto frequentato   sia dai militari che dagli ufficiali dell’esercito italiano: questo poteva bastare per incriminarla come nemica del popolo. In questa terribile situazione  tutto era possibile ed era sufficiente  aver commesso qualche piccolo sgarbo ai danni di chi ora si credeva  vincitore per subirne la vendetta.

Lei conosceva le persone che si sarebbero recate al castello, trasformato in quartier generale,  per chiedere protezione e fece di tutto per avvisarle del segreto accordo, ma i drusi, stabilmente installati nella sua trattoria, non le diedero il permesso di uscire. Il colonnello, lasciando ogni cosa in balia dei partigiani, fuggì verso Pinguente, ma qui lo intercettarono altri ribelli slavi: il salvacondotto a nulla  gli servì! Chi si era recato in caserma per chiedere protezione fu caricato, dopo un rapido processo dall’esito prevedibile, su una corriera con i vetri oscurati e gettato in una delle numerose foibe nei dintorni di Pisino.

Episodi analoghi accaddero ad Albona, a Fiume ed in altre località: la popolazione civile fu abbandonata a sé stessa mentre chi avrebbe dovuto proteggerla cercava di fuggire il più lontano possibile. D’altra parte anche il re d’Italia, il capo supremo dei militari, aveva abbandonato Roma per raggiungere Brindisi ed i suoi subalterni si comportarono con eguale vigliaccheria.

Persone che non avevano nulla da rimproverarsi cercavano di nascondersi  nelle campagne o vivevano asserragliate nelle proprie abitazioni sperando che nessuno venisse a bussare.

Catina dovette servire i  titoisti che si ubriacavano ed accennavano a passi di kolo, una danza tradizionale serba accompagnata da canti balcanici che, in quelle circostanze e per una popolazione disarmata ed impotente, erano simili ad un’orazione funebre.

Lei svuotava le botti del Bepi Suran sperando che i partigiani se ne andassero e qualcuno venisse in soccorso suo e  di quelle genti martoriate, ma nessuno arrivava.

Alla fine a proteggere Pisino  arrivarono i tedeschi e, dopo la cruenta sortita dei drusi, furono accolti come liberatori. Anche alcuni giovani del posto, tra cui Marcello, il figliastro autista delle corriere del monte Maggiore, si arruolarono nelle file dei germanici oppure costituirono nuclei autonomi cercando di respingere  i titoisti che compivano feroci attentati per poi sparire nei boschi: era l’unica soluzione praticabile considerando che chi avrebbe dovuto e potuto intervenire, le risorse per arrestare le bande comuniste mal organizzate ed altrettanto mal equipaggiate c’erano, stava con ogni mezzo cercando una via di fuga.

L’Istria fu  infine sottratta alla giurisdizione italiana ed annessa direttamente al Terzo Reich come era già accaduto per l’Alto Adige e la provincia di Belluno: l’amministrazione del territorio, dopo una  parentesi di circa vent’anni, era tornata in mani tedesche. 

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