Uskok 21

 USKOK 21

La fine del conflitto aveva portato grandi cambiamenti: l’Istria non era più soggetta all’impero sconfitto, ma al regno d’Italia. C’era un clima d’attesa: si aspettavano i primi provvedimenti da parte dei nuovi governanti per meglio comprendere cosa il futuro avrebbe riservato. Intanto la situazione economica e sociale era peggiorata non solo nei centri costieri più grandi e popolosi, ma anche nelle campagne che subivano la concorrenza delle terre venete e friulane più fertili e quindi più produttive. Il nuovo corso si avvalse di migliaia di funzionari  che la gente sentiva estranei al tessuto locale: i cosiddetti regnicoli, o zifi,   diversi per cultura e poco propensi a prendere atto della peculiarità di quelle terre, da poco acquisite,  che andavano amministrate con criteri diversi da quelli adottati in altre zone del regno. Diventarono problematiche le relazioni con i contadini slavi che comprendevano e parlavano   l’istro veneto, oltre al loro dialetto, ma avevano difficoltà nel capire la lingua italiana in maggior misura se articolata  velocemente e con accenti, almeno per loro,  stravaganti. L’incomunicabilità si trasformò  presto in ostilità anche per via delle nuove tasse che mostravano il vero volto di uno stato severo ed inflessibile soprattutto nei riguardi dei piccoli proprietari terrieri. Parecchie aree agricole e residenziali passarono di mano venendo acquisite da affaristi,  spesso ammanicati con la politica, che arrivavano da regioni lontane per concludere buoni affari. Le banche fecero anch’esse la loro parte aggravando una situazione già ampiamente compromessa. Il governo centrale cercò di intervenire avviando importanti opere di bonifica, ampliando le miniere, costruendo nuove strade ed acquedotti, ma nel contempo decise di imprimere un’accelerazione  all’assorbimento della popolazione slava e di conseguenza alimentando delle controversie che prima non esistevano o per lo meno erano presenti in misura trascurabile. A conti fatti ad un relativamente tranquillo specchio d’acqua si sostituì un mare in burrasca, una pentola in continua  ebollizione. Se per lungo tempo sloveni e croati avevano  considerato l’omologazione nella comunità istro veneta alla stregua di  un ambìto avanzamento sociale, ora iniziarono a ribellarsi contro le nuove regole che rendevano obbligatorio ciò che prima avveniva, con le dovute tranquillità e riflessione, in modo spontaneo,  una sorta di travaso indolore in atto da tempo. Le cosiddette terre irredente, ora redente, avrebbero richiesto un trattamento particolare, ma così non fu ed alle  complicazioni tipiche delle zone di confine si sovrapposero rivendicazioni in parte frutto dei nascenti nazionalismi italiano e slavo ed in parte come risposta ad un’amministrazione poco attenta nel gestire le complessità del territorio. Gli istro veneti parteggiavano per l’Italia senza averla mai veramente conosciuta, ma ampiamente idealizzata, gli slavi, non tutti per la verità,  per il neonato regno di sloveni, croati e serbi senza avere idea dello stato d’arretratezza e delle condizioni  di vita all’interno  dei Balcani.   

Egidio aveva una fidanzata slava delle campagne di Lupogliano e, immediatamente dopo aver concluso il periodo di  forzato esilio sulle pendici del  monte Maggiore, si precipitò da lei. Si accorse subito che qualcosa era cambiato: i futuri cognati l’avevano sempre accolto con benevolenza, due di loro erano  veterani del Novantasettesimo reggimento e quindi, oltre alla manifesta  simpatia personale, vigeva un certo cameratismo. Tutto si modificò dopo il crollo dell’impero: pareva che una cortina di diffidenza si fosse interposta tra persone un tempo affiatate che, nel passato, riuscivano a convivere senza problemi. Egidio per alcuni conterranei era l’eroe che aveva abbandonato l’esercito di una potenza nemica per rivendicare la propria appartenenza, per altri un semplice disertore che, in situazioni diverse, avrebbe subito una giusta punizione. In ultima analisi gli slavi erano meglio tutelati dal passato governo ed ora non si rassegnavano al loro ruolo di subalterni. La faccenda si stava complicando anche se al momento si trattava solo di deboli mugugni non seguiti da veri e propri atteggiamenti ostili.

“Mi no go fato gniente de mal, temendo una seconda destinazione in Galizia go tajado la corda per non andar incontro a morte sicura”. Se la situazione non fosse cambiata dopo il crollo dell’Austria la fidanzata di Egidio, in seguito al matrimonio, si sarebbe trasferita ad Aurania passando, per lo meno in famiglia,  dal dialetto croato all’istro veneto e dal lavoro nei campi, al seguito dei fratelli, ad aiutante del marito che girava per tutta l’Istria centro orientale vendendo filati ed altri articoli di merceria. Il parroco del paese avrebbe registrato l’unione nella lingua che più gli aggradava italianizzando o slavizzando, nel caso ne riscontrasse la necessità, i nomi degli sposi. Ora per Rita le cose si erano un tantino complicate: avrebbe dovuto superare l’ostilità dei propri fratelli e forse anche quelle dei compaesani in maggioranza slavi ed un trasferimento sino a pochi mesi prima del tutto naturale si sarebbe tramutato in una dichiarazione di appartenenza. Nel frattempo Egidio, che di cognome faceva Iustincic’, senza per la verità ricevere alcun sollecito esterno, decise di mutarlo in Giustini e fece domanda al prefetto di Pola.

Compiuto questo atto formale e valutati i pro e contro i due novelli sposi decisero di abbandonare Aurania  per recarsi a Valmazzinghi, una località sul canale d’Arsa, che gli slavi chiamavano Finocchio, dove un’industria siciliana aveva costruito un cementificio e c’era urgente bisogno di mano d’opera. Lì Egidio fece conoscenza con tanti minatori  di Càrpano che spesso portavano i loro figli al mare in prossimità della fabbrica e venne a sapere che i lavoratori erano sottoposti a turni massacranti perché, se sotto l’Austria esistevano altre miniere di carbone più redditizie di quelle istriane e con materiale migliore, l’Italia poteva contare solo sui giacimenti istriani  e su quelli della  lontana Sardegna entrambi purtroppo ricchi di zolfo:  non c’era altra possibilità.

Piccoli incidenti si susseguivano nei pozzi di Càrpano mentre si stava progettando la bonifica del lago e la successiva costruzione della città mineraria. A Valmazzinghi erano sempre bene informati sugli avvenimenti perché la cementeria sfruttava il carbone estratto dalle miniere e gli operai della società siciliana erano quasi quotidianamente in contatto con quelli dell’impresa estrattiva. Nel 1921 i minatori scioperarono e si presero una giornata di ferie per celebrare la Candelora sebbene la direzione avesse  abolito questa festività.  Ne seguì una lunga trattativa, a cui parteciparono anche dei sindacalisti giunti da fuori provincia, a cui seguì un periodo di autogestione durato circa un mese ed interrotto dall’intervento della forza militare. Una cinquantina di minatori furono arrestati, ma nel successivo processo tutti assolti. La faccenda comunque  servì a mettere in luce, per l’ennesima volta, le condizioni in cui operavano le maestranze soggette a turni massacranti ed in assenza delle più elementari norme di sicurezza.

Rita seguì da vicino le fasi della controversia, ebbe modo di confrontarsi con alcuni sindacalisti di Trieste e con uno degli avvocati del processo: il marito di un’amica di Valmazzinghi  era infatti coinvolto in prima persona e quindi riceveva continuamente notizie sull’evolversi della situazione.

Durante una delle sue trasferte ad Albona, che distava una quindicina di chilometri da Finocchio, conobbe un certo Andro originario di Laurana che si era fatto una reputazione di uomo duro, granitico difensore dei diritti dei lavoratori e da quel giorno lei con ogni pretesto cercava di raggiungere la città.  Andro le ricordava il minore dei  suoi fratelli, quello  con cui aveva un rapporto speciale, una confidenza particolare. Il minatore e la donna si intrattenevano a lungo percorrendo lentamente  la salita  che da Piedalbona portava in centro e discutevano di tutto: dalle recriminazioni contro la società mineraria e quella cementifera alla condizione dell’Istria in seguito al crollo dell’impero. Erano entrambi slavi, si esprimevano nel loro dialetto e trovavano reciproco conforto l’uno nell’altra: Andro si lamentava e veniva consolato per i massacranti turni di lavoro, Rita gli confidava di non sentirsi più in sintonia con il marito che, dopo alcuni mesi in cui aveva lavorato come operaio, pensava solo a far carriera nell’ambito della società in cui era impiegato e per farlo si vantava con i dirigenti, tutti italiani, di  aver complottato contro l’impero in favore del regno. Si riferiva naturalmente alla sua diserzione  abilmente tramutata in un  atto d’eroismo.

Anche Andro però aveva i propri scheletri, belli grossi, nell’armadio: ad Abbazia ed a Laurana aveva compiuto diversi furti ai danni dei ricchi proprietari delle dimore patrizie che, in questo splendido  territorio tra un mare azzurrissimo ed una  montagna lussureggiante, si affacciavano direttamente sulla costa del Mediterraneo. Le sue  imprese non erano  le  gesta di un novello Robin Hood che toglieva ai benestanti per dare ai poveri, bensì delle rapine, spesso a mano armata, per soddisfare una  smisurata avidità e la propensione a delinquere. Messo in galera per qualche tempo, essendosi fatto intorno terra bruciata aveva lasciato moglie e figli a Laurana, nella più completa indigenza, per rifugiarsi ad  Albona, che non era molto distante dal luogo di partenza, ma dove  c’era la concreta possibilità di confondersi tra le centinaia  persone impiegate in miniera per la maggior parte foreste e quindi ignare dei suoi trascorsi. Lì giunto  aveva continuato ad atteggiarsi a capopopolo e, grazie ad un carattere ruvido e litigioso, riusciva a schivare gli impegni più gravosi e ad ottenere un trattamento di favore da parte dei superiori a cui conveniva, per evitare guai maggiori, chiudere un occhio ed a volte entrambi.

Con Rita, ignara di tutto,  usava però il guanto di velluto e dolci parole d’amore gli sgorgavano dalle labbra come l’acqua di un limpido ruscello.

Finì com’era destino che finisse: Rita ed Egidio si separarono, la giovane donna andò a vivere a Piedalbona ed i suoi fratelli tirarono un sospiro di sollievo constatando che lei, dopo un periodo di sbandamento, era ritornata alle origini preferendo un membro della loro etnia ad un turpe soggetto che si vantava per meriti non suoi e non disdegnava di umiliarsi dinanzi ai padroni sino a diventare uno squallido galoppino. Qualcosa stava bollendo in pentola, ma i contorni non erano ancora ben delineati e le dispute personali andavano ad alimentare un  inconsueto  clima di diffidenza: una miscela esplosiva.

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