Uskok 18
USKOK 18
Gavino era rimasto ad Albona per
pochi giorni in attesa che lo
dirottassero verso la miniera di destinazione: in questo breve lasso di tempo
fece amicizia con un bellunese, un rude montanaro taciturno che aveva lasciato,
come altri suoi conterranei, il Cadore
per cercare fortuna altrove. In quel periodo la società carbonifera era alla
disperata ricerca di mano d’opera da impiegare principalmente in Istria perché,
a sud di Càrpano, si progettava di costruire una nuova cittadina che offrisse
ospitalità sia ai minatori che ai loro dirigenti. Il consorzio aveva acquisito
a questo scopo una larga porzione dei
terreni acquitrinosi che occupavano un’area estesa sino ad un ramo secondario
del canalone d’Arsa ed aveva provveduto a bonificarli con grande impiego di
uomini e capitali.
Giuseppe, questo il nome del bellunese,
non era adatto per lavorare in miniera ma, a differenza di Gavino, riusciva a nascondere
le proprie paure, il terrore del buio e dei luoghi chiusi ed angusti, perché
non poteva permettersi di rifiutare l’unico impiego che, dopo mesi di
disoccupazione, gli veniva offerto.
Egli si confidò con Gavino e ne nacque un
solido rapporto di amicizia cementato dalla comune situazione di disagio e
malessere che li accomunava estraniandoli dagli altri minatori che invece palesavano
sicurezza e sprezzo del pericolo in un
ambiente ostile dove le norme di sicurezza erano l’ultimo dei pensieri di una
proprietà che pensava solo al profitto. Avevano continuato a frequentarsi anche
dopo che il sardo fu licenziato in tronco ed ebbe la fortuna di incrociare
Ersilia sul proprio cammino.
Due caratteri chiusi quelli dell’isolano e del montanaro
che però riuscivano ad entrare in sintonia proprio grazie alle loro lacune, se
così si potevano definire, che li
rendevano inadatti al tipo di lavoro che avevano progettato di svolgere.
Quando Gavino si allontanò da Albona e
dalle miniere quel legame dunque non si spezzò,
anzi divenne più solido e Giuseppe si recava spesso a Cepich, ospite in casa
dell’amico, cui dava una mano per dissodare il terreno o compiere piccoli
lavori di manutenzione.
Intanto la bonifica a sud di Càrpano era
quasi ultimata e dove prima era solo
palude stavano sorgendo nuove abitazioni, una grande piazza, una chiesa a forma
di vagone minerario, un campo sportivo, una piscina. Il bellunese da tempo aveva
intenzione di aprire una mescita in un locale già individuato nei pressi della canonica:
non un’osteria a servizio solo dei minatori, di quelle già ce n’erano, ma
qualcosa di più raffinato che si distinguesse dalle numerose bettole del
circondario. Un locale elegante dove avrebbero potuto incontrarsi e sostare anche gli impiegati ed i dirigenti delle
miniere e dove i semplici operai sarebbero entrati, con riguardo,
solo dopo aver dismesso la tuta da lavoro.
Giuseppe non aveva soldi, ma il desiderio
di abbandonare un lavoro faticoso che ogni giorno gli procurava angoscia era
grande per cui decise di rivolgersi all’amico per cercare un aiuto finanziario.
La borsa di casa del sardo era però saldamente nelle mani di
Ersilia che, estrosa e stramba quanto si vuole, sapeva tuttavia fare di conto e
separare le buone idee da quelle strampalate. Secondo il suo punto di vista
nella nuova cittadina c’erano già troppi
locali a servizio dei minatori e degli impiegati mentre i non numerosi dirigenti e le persone di
passaggio i clienti, i rappresentanti avrebbero continuato a raggiungere Albona
che offriva una vasta scelta di ritrovi di qualsiasi genere. Anche Gavino, pur
volendo aiutare l’amico, era dello stesso parere ma aveva anche buon cuore e
desiderava togliere Giuseppe da quelle miniere che erano, lui lo sapeva bene, l’anticamera
dell’inferno. Ritmi di lavoro massacranti in una sorta di girone diabolico dove
gli incidenti, anche di non lieve entità, si susseguivano senza che si
prendessero le necessarie contromisure. Con l’espansione della nuova cittadina
la situazione sarebbe senz’altro peggiorata e
il sardo non desiderava che l’amico restasse vittima di qualche
infortunio: il governo autarchico calcava
la mano affinchè le estrazioni proseguissero a ritmo serrato ed il nuovo paese
stava rapidamente superando i diecimila abitanti.
Tanto fece e tanto brigò Gavino che alla
fine Ersilia fu costretta a cedere ed a vendere un appezzamento di terreno, che
le avevano lasciato in eredità i genitori, per salvaguardare la pace in
famiglia.
La maggior parte dei poderi creatisi dopo
il prosciugamento del bacino lacustre furono affidati a reduci del conflitto
mondiale ma la donna, originaria della zona, possedeva delle porzioni di lago,
forse delle antiche concessioni feudali, che ora si erano tramutate in fertile
terreno coltivabile.
Mentre avanzavano i lavori per la
realizzazione della nuova cittadina, cui
fu dato il nome di Arsia anche se il fiume la contornava a qualche chilometro
di distanza senza mai attraversarla, Giuseppe affittò un ampio locale nelle
immediate vicinanze dell’unica piazza, ormai completata e lo abbellì con
pavimenti di marmo, intonaci di pregio, una sala biliardo, soprammobili in
ceramica ed enormi specchi con la reclame della China Martini e dell’Aperol.
Gavino, insieme alla moglie, aveva
investito una cifra considerevole ed ora si aspettava di ricevere i proventi di
quell’attività anche se i suoi timori non erano del tutto infondati. Infatti
durante il giorno il paese si spopolava, si muovevano solo frettolose ed
anziane massaie mentre le più giovani e gli uomini erano in miniera oppure
riposavano dopo turni massacranti. Al tramonto le vie si animavano un pochino,
ma ai rudi minatori il locale metteva soggezione, era troppo raffinato, per cui
preferivano varcare la soglia delle tre osterie del posto sicuramente meno
eleganti, ma più ospitali e, a parer loro, più confortevoli. Gli impiegati ed i dirigenti durante la settimana
rimanevano rintanati in casa, al massimo si spostavano verso Albona o
raggiungevano Pola nei giorni di festa. Il locale di Giuseppe rimaneva quindi sempre
desolatamente vuoto. A nulla valsero le promozioni, gli accorati appelli del
bellunese: Ersilia aveva visto giusto e, dopo alcuni mesi durante i quali seppe
tenere a freno la propria lingua, se ne uscì con un discorso durissimo che, pur
avendo Gavino spalle larghe, lo
mortificò sia come uomo che come finanziatore di un’impresa fallimentare,
soggetto miope dal grande cuore, ma dal
piccolo cervello. Ne seguì una
serie di recriminazioni, di liti spesso furibonde che minarono dalle fondamenta
la stabilità di un rapporto che, sino a quel momento, appariva solido.
Il sardo fu costretto ad affrontare
l’amico suo debitore e ne scaturì un acceso diverbio a conclusione del quale a
Giuseppe fu imposto un ultimatum: nel giro di trenta giorni avrebbe dovuto
trovare una soluzione restituendo quanto ricevuto. “La mia vita è diventata un inferno
ed una soluzione dev’essere trovata in tempi brevissimi”.
Era impossibile che il bellunese
riuscisse dall’oggi al domani a reperire il capitale necessario comunque, per
togliersi di torno Gavino, manifestò l’intenzione di raggiungere il Cadore per
chiedere aiuto ad amici e parenti.
In realtà non andò molto lontano e si
mise a girovagare per le campagne intorno ad Albona trascorrendo parecchie
notti all’addiaccio in attesa che il cielo gli suggerisse una possibile
soluzione. E la soluzione gli arrivò in una fredda nottata di fine Febbraio mentre
giaceva infreddolito in un fienile lungo la strada per Brovigne: doveva mettere
in atto una rapina!
Siccome di quattrini ne servivano
parecchi l’unica possibilità era quella di andarseli a cercare nell’unico posto
dove vi fosse la possibilità di reperirli: gli uffici della società mineraria.
Ogni quindici giorni, in orario prestabilito, cospicue somme di denaro uscivano dalla banca locale per raggiungere
la direzione delle miniere. In quelle occasioni un funzionario
dell’agenzia lasciava il suo posto di
lavoro, caricava le somme che sarebbero servite per pagare i salari ai minatori
in una valigia di pelle, attraversava la piazza
del paese e, dopo aver camminato per poche decine di metri sotto i
portici, si infilava nell’ufficio della compagnia.
Occorreva sfruttare questo brevissimo
tragitto per sottrargli il prezioso bagaglio e farlo sparire all’interno del
locale di Giuseppe che si trovava lungo il percorso in una posizione
leggermente defilata.
Il bellunese, avendo deciso che questa
strada fosse l’unica praticabile e
fermamente determinato a correre dei
rischi pur di risarcire l’amico che aveva attratto in un quell’affare
svantaggioso, andò a chiedere aiuto proprio a Gavino coinvolgendolo nel disegno
criminale con delle argomentazioni che, a ben vedere e data l’urgenza della
cosa, non erano completamente stravaganti. Il denaro non poteva evidentemente
essere rimesso in circolazione in tempi brevi, ma questi erano solo dettagli: l’importante era studiare un piano
che non si risolvesse in un catastrofico fallimento.
Comunque non c’erano altre vie
d’uscita: o il sardo accettava di
collaborare con il bellunese o quest’ultimo
si sarebbe gettato nel canalone mettendo fine ad una vita compromessa da
troppi errori e condannando l’amico ad
un eterno rimorso.
Un ricatto bello e buono di cui Gavino
non poteva riferire alla moglie perché troppo grande era la posta in gioco e
troppo complicato andarle a spiegare cosa stavano architettando.
I due decisero dunque di collaborare e,
resisi irriconoscibili con sciarpe e lunghi pastrani, aggredirono alle spalle
il funzionario di banca, gli sottrassero la valigia, rovesciarono il suo
contenuto in un sacco di juta e fecero perdere le proprie tracce. L’impiegato
venne soccorso dai colleghi che, non vedendolo ritornare in ufficio, si misero
in allarme.
Nessuno vide oppure se qualcuno vide
decise di non intromettersi e Giuseppe, per non destare sospetti, il giorno
seguente chiuse per sempre il proprio
locale, riuscì a venderne gli arredi
e si recò in miniera chiedendo di essere riassunto.
Ersilia non venne mai a conoscere i
particolari dell’accaduto anche se scovò nel fango della porcilaia un nero
tabarro ed una altrettanto scura sciarpa di lana. Gavino le consigliò soltanto
di non spendere subito quel denaro piovuto dal cielo anche se, conoscendo la
donna, non c’era pericolo che avesse in progetto di farlo. Lei, che
naturalmente aveva capito tutto, negli
anni seguenti si limitò a controllare che il sacco di juta ed il suo contenuto
rimanessero asciutti e non venissero attaccati dai topi del solaio in attesa
che i figli diventassero grandi e potessero godere di ciò di cui si era volontariamente
privata.
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