Uskok 14

 USKOK 14

 

La Serenissima intendeva rimanere neutrale senza appoggiare né la Francia, né l’Austria, ma questa risoluzione non le portò fortuna: i due eserciti infatti si scontrarono sul suo territorio attraversandolo e devastandolo senza farsi eccessivi problemi. I francesi, più degli austriaci,  si comportarono  da predoni inseguendo gli asburgici nella  loro fuga verso il Tirolo e non risparmiando le popolazioni locali: una situazione di grande pericolo cui  i notabili veneziani  non seppero porre rimedio se non riconfermando una neutralità  che equivaleva ad una resa incondizionata.

I due contendenti, pur affrontandosi in campo aperto per salvare le apparenze,   avevano però sottoscritto un  accordo segreto per cui la parte lombarda assoggettata alla Serenissima, il Veneto, l’istria e la Dalmazia, sarebbero passati sotto gli Asburgo, mentre la Francia si sarebbe impossessata degli altri territori gravitanti su Milano e, più a nord,  dei Paesi Bassi

Nel frattempo i transalpini non andavano troppo per il sottile inglobando le zone  più vulnerabili della Bergamasca, periferiche e più esposte e giungendo ad occupare il capoluogo e le sue valli. Se in città esistevano simpatie giacobine e quindi un minimo d’appoggio i francesi lo ottennero, nelle valli ed in particolar modo nell’Imagna, Brembana e Seriana, erano considerati  degli invasori e scoppiarono quindi dei tumulti che ben presto si estesero a macchia d’olio.

Alvise e suo cugino Pietro, che naturalmente parteggiavano per Venezia, si unirono ad altri rivoltosi e raggiunsero Bergamo dove la situazione non era per nulla chiara: pareva che la città si fosse ribellata alla Serenissima ma, come accadde più tardi per Brescia, ancora si affrontavano le opposte fazioni.

Nel frattempo il senato veneziano, oramai senza autorità, sollecitava un rispetto delle regole e degli impegni presi  che i due potenti avversari si guardarono  bene  dall’onorare.

I due giovani, avendo avuto notizia che Verona si stava sollevando contro i francesi, da Mezzoldo scesero dunque  a Bergamo e si gettarono nella mischia, ma ormai le sorti della città erano segnate e quando seppero che il podestà stava architettando la fuga in laguna travestito da contadino, si accodarono ai fuggitivi con l’intento di raggiungere Venezia per respingere eventuali attacchi al cuore della repubblica.

Brescia e Crema rimanevano ancora relativamente tranquille anche se in parte occupate mentre  Verona si era sollevata contro i francesi ed a Padova si temevano le reazioni dei giovani universitari per la maggior parte d’orientamento giacobino.

Quando i due raggiunsero, dopo varie peripezie, la laguna il disastro era ormai avvenuto e solo esigue sacche di resistenza  permanevano insieme agli attestati di fedeltà delle varie cittadine venete, dell’Istria, della Dalmazia  e  delle valli bergamasche e bresciane.

Ma la vera resistenza, dichiarazioni d’intenti a parte, avvenne sulla sponda orientale dell’Adriatico e, mentre alcuni nobili accolsero a braccia aperte i francesi altri, fiutato l’inganno, non riconobbero il nuovo governo.  La situazione era piuttosto fluida e si stava ogni giorno di più complicando.

I transalpini avevano illuso i loro sostenitori promettendo ciò che non avrebbero potuto mantenere per via degli  accordi segreti in virtù dei quali per circa sei anni i possedimenti veneziani furono appannaggio degli Asburgo e successivamente, per altri tre lustri, vennero inglobati nelle province francesi sino a che Napoleone non fu spodestato e l’Austria tornò a farla da padrone riunendo stabilmente e per la prima volta  l’Istria veneta con la contea di Pisino.

Gli istro veneti avrebbero continuato ad usare la propria lingua, a seguire le proprie tradizioni, mentre gli slavi erano  propensi ad accettare una dominazione che per loro aveva sempre avuto un occhio di riguardo. Se qualche dissapore si manifestava era per modeste questioni di commercio o di eredità, quasi  mai per altri motivi. D’altra parte in quel crogiuolo di etnie sarebbe stato arduo operare una qualche distinzione e tra morlacchi, valacchi, serbi, croati, bosniaci, veneti, friulani, ungheresi e tedeschi  si perdeva l’ orientamento. Gli austriaci,  a differenza dei francesi, si sarebbero limitati ad amministrare ciò che già esisteva magari  inviando burocrati tedeschi in quelle comunità, ma senza voler completamente sovvertire consuetudini antiche ed atavici rituali.

Questa differenza il popolo la percepiva e sia nella parte costiera che nel più remoto entroterra ritornò la bonaccia dopo una breve parentesi in cui briganti di terra e pirati di mare avevano vivacizzato la sonnacchiosa regione.

Si concludeva così senza gloria la plurisecolare dominazione di Venezia che sia i sudditi di terraferma che quelli della costa dalmata ed istriana avevano accettato di buon grado dimostrando una fedeltà che aveva radici profonde.

Alvise e suo cugino raggiunsero, in fuga dai napoleonici e dopo varie peripezie, la Cicceria, una zona impervia al confine nord orientale dell’Istria e qui si stabilirono quando ancora le truppe francesi dominavano il territorio. Ritenevano di poter organizzare, in queste zone periferiche ed isolate una  controffensiva che coinvolgesse le popolazioni, di origini valacche e parlanti un dialetto romanzo,  che erano rimaste fedeli alla Serenissima e non si rassegnavano all’ingloriosa fine della repubblica.

Malgrado i loro sforzi non riuscirono a stimolare i poveri pastori della zona, che vivevano di stenti in una sorta di secolare apatia,   né a prendere contatto con le più esuberanti genti della costa, che con questi miseri pastori non avevano contatti ed i loro tentativi non sortirono alcun risultato apprezzabile. Per sopravvivere si diedero al brigantaggio poi, visti gli scarsi risultati in quella poverissima plaga, si spostarono verso sud sino a raggiungere il lago di Cepich. Anche qui incontrarono solo miseri villaggi, ma almeno la terra era più fertile ed il lago pescoso. Pietro, abituato alle feconde vallate bergamasche ed a una vita agiata, era però in preda ad una profonda angoscia ma non osava, col cugino, avvicinarsi alla costa perché insieme avevano compiuto degli attentati contro i francesi e temevano la loro vendetta. Trascorsero così una ventina d’anni tra la prima occupazione degli asburgici, la successiva dei francesi e la nuova dominazione austriaca.

Quando l’Austria ritornò a dominare quelle terre si diede maggior impulso all’estrazione del carbone e l’abitato di Càrpano sul torrente che si impaludava prima di gettarsi nell’Adriatico  divenne un piccolo centro di attrazione per le zone circostanti e per  uomini  sempre alla ricerca di un lavoro stabile anche se assai gravoso.

Si edificarono nuove case, qualche edificio di pregio a servizio della miniera e l’osteria del croato subì la concorrenza di altre mescite.

I due cugini misero su famiglia e dovettero necessariamente impiegarsi  presso le miniere non esistendo altre alternative. Solo allora vennero a conoscenza della tragica fine che aveva fatto lo zio di Barbana e delle responsabilità degli altri congiunti: quella storia veniva raccontata in zona come se fosse un episodio recente e nuovi particolari, spesso inventati di sana pianta, andavano ad aggiungersi ad altri che avevano un fondo di verità.

Nei giorni di festa rientravano a Cepich, raggiungevano il lago e passavano alcune ore tranquille con le famiglie  pescando o coltivando la terra. Vennero in contatto con altre popolazioni di origine valacca insediatesi nei dintorni  e con i morlacchi con cui la repubblica di Venezia aveva ripopolato quella regione in passato falcidiata dalla peste.

Avevano messo al mondo una nidiata di figli e la loro vita trascorreva, tutto sommato, abbastanza tranquilla. Alvise presenziò ai funerali della madre e si riappacificò con il padre che, senza prestar ascolto a chi lo consigliava diversamente aveva scelto, per amore, una strada impervia e ricca di ostacoli senza mai scendere a compromessi con la propria coscienza. Questa riconciliazione pose fine ad un periodo di grande travaglio morale e gli restituì in parte quell’equilibrio interiore che aveva perduto dopo essere venuto a conoscenza dei trascorsi della madre.

Con  il ritorno degli austriaci si rispolverò un vecchio progetto di bonifica del lago e furono ingaggiati sterratori e altra manovalanza generica per porre rimedio ad una situazione di degrado  che rendeva poco ospitali alcuni tratti della costa lacustre ed era causa delle febbri malariche che colpivano gli abitanti dei dintorni. Pietro ed Alvise abbandonarono per qualche mese le miniere e cercarono lavoro nelle bonifiche salvo poi tornare alla primitiva occupazione  quando i lavori di risanamento della zona furono improvvisamente interrotti per mancanza di fondi.

I loro zii finiti in carcere a Rovigno erano morti da tempo mentre i  figli avevano abbandonato l’orfanotrofio di Pola adottati da varie famiglie nel lontano Friuli.

 

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