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La Serenissima intendeva rimanere neutrale senza appoggiare
né la Francia, né l’Austria, ma questa risoluzione non le portò fortuna: i due
eserciti infatti si scontrarono sul suo territorio attraversandolo e
devastandolo senza farsi eccessivi problemi. I francesi, più degli
austriaci, si comportarono da predoni inseguendo gli asburgici
nella loro fuga verso il Tirolo e non
risparmiando le popolazioni locali: una situazione di grande pericolo cui i notabili veneziani non seppero porre rimedio se non
riconfermando una neutralità che equivaleva
ad una resa incondizionata.
I due contendenti, pur affrontandosi in campo aperto per
salvare le apparenze, avevano però
sottoscritto un accordo segreto per cui
la parte lombarda assoggettata alla Serenissima, il Veneto, l’istria e la
Dalmazia, sarebbero passati sotto gli Asburgo, mentre la Francia si sarebbe
impossessata degli altri territori gravitanti su Milano e, più a nord, dei Paesi Bassi
Nel frattempo i transalpini non andavano troppo per il
sottile inglobando le zone più
vulnerabili della Bergamasca, periferiche e più esposte e giungendo ad occupare
il capoluogo e le sue valli. Se in città esistevano simpatie giacobine e quindi
un minimo d’appoggio i francesi lo ottennero, nelle valli ed in particolar modo
nell’Imagna, Brembana e Seriana, erano considerati degli invasori e scoppiarono quindi dei
tumulti che ben presto si estesero a macchia d’olio.
Alvise e suo cugino Pietro, che naturalmente parteggiavano
per Venezia, si unirono ad altri rivoltosi e raggiunsero Bergamo dove la
situazione non era per nulla chiara: pareva che la città si fosse ribellata
alla Serenissima ma, come accadde più tardi per Brescia, ancora si affrontavano
le opposte fazioni.
Nel frattempo il senato veneziano, oramai senza autorità,
sollecitava un rispetto delle regole e degli impegni presi che i due potenti avversari si
guardarono bene dall’onorare.
I due giovani, avendo avuto notizia che Verona si stava
sollevando contro i francesi, da Mezzoldo scesero dunque a Bergamo e si gettarono nella mischia, ma
ormai le sorti della città erano segnate e quando seppero che il podestà stava
architettando la fuga in laguna travestito da contadino, si accodarono ai
fuggitivi con l’intento di raggiungere Venezia per respingere eventuali
attacchi al cuore della repubblica.
Brescia e Crema rimanevano ancora relativamente tranquille
anche se in parte occupate mentre Verona
si era sollevata contro i francesi ed a Padova si temevano le reazioni dei
giovani universitari per la maggior parte d’orientamento giacobino.
Quando i due raggiunsero, dopo varie peripezie, la laguna il
disastro era ormai avvenuto e solo esigue sacche di resistenza permanevano insieme agli attestati di fedeltà
delle varie cittadine venete, dell’Istria, della Dalmazia e
delle valli bergamasche e bresciane.
Ma la vera resistenza, dichiarazioni d’intenti a parte,
avvenne sulla sponda orientale dell’Adriatico e, mentre alcuni nobili accolsero
a braccia aperte i francesi altri, fiutato l’inganno, non riconobbero il nuovo
governo. La situazione era piuttosto
fluida e si stava ogni giorno di più complicando.
I transalpini avevano illuso i loro sostenitori promettendo
ciò che non avrebbero potuto mantenere per via degli accordi segreti in virtù dei quali per circa
sei anni i possedimenti veneziani furono appannaggio degli Asburgo e
successivamente, per altri tre lustri, vennero inglobati nelle province
francesi sino a che Napoleone non fu spodestato e l’Austria tornò a farla da
padrone riunendo stabilmente e per la prima volta l’Istria veneta con la contea di Pisino.
Gli istro veneti avrebbero continuato ad usare la propria
lingua, a seguire le proprie tradizioni, mentre gli slavi erano propensi ad accettare una dominazione che per
loro aveva sempre avuto un occhio di riguardo. Se qualche dissapore si
manifestava era per modeste questioni di commercio o di eredità, quasi mai per altri motivi. D’altra parte in quel
crogiuolo di etnie sarebbe stato arduo operare una qualche distinzione e tra
morlacchi, valacchi, serbi, croati, bosniaci, veneti, friulani, ungheresi e tedeschi si perdeva l’ orientamento. Gli austriaci, a differenza dei francesi, si sarebbero
limitati ad amministrare ciò che già esisteva magari inviando burocrati tedeschi in quelle
comunità, ma senza voler completamente sovvertire consuetudini antiche ed
atavici rituali.
Questa differenza il popolo la percepiva e sia nella parte
costiera che nel più remoto entroterra ritornò la bonaccia dopo una breve
parentesi in cui briganti di terra e pirati di mare avevano vivacizzato la
sonnacchiosa regione.
Si concludeva così senza gloria la plurisecolare dominazione
di Venezia che sia i sudditi di terraferma che quelli della costa dalmata ed
istriana avevano accettato di buon grado dimostrando una fedeltà che aveva
radici profonde.
Alvise e suo cugino raggiunsero, in fuga dai napoleonici e
dopo varie peripezie, la Cicceria, una zona impervia al confine nord orientale
dell’Istria e qui si stabilirono quando ancora le truppe francesi dominavano il
territorio. Ritenevano di poter organizzare, in queste zone periferiche ed
isolate una controffensiva che
coinvolgesse le popolazioni, di origini valacche e parlanti un dialetto romanzo, che erano rimaste fedeli alla Serenissima e
non si rassegnavano all’ingloriosa fine della repubblica.
Malgrado i loro sforzi non riuscirono a stimolare i poveri
pastori della zona, che vivevano di stenti in una sorta di secolare
apatia, né a prendere contatto con le
più esuberanti genti della costa, che con questi miseri pastori non avevano
contatti ed i loro tentativi non sortirono alcun risultato apprezzabile. Per
sopravvivere si diedero al brigantaggio poi, visti gli scarsi risultati in
quella poverissima plaga, si spostarono verso sud sino a raggiungere il lago di
Cepich. Anche qui incontrarono solo miseri villaggi, ma almeno la terra era più
fertile ed il lago pescoso. Pietro, abituato alle feconde vallate bergamasche
ed a una vita agiata, era però in preda ad una profonda angoscia ma non osava,
col cugino, avvicinarsi alla costa perché insieme avevano compiuto degli
attentati contro i francesi e temevano la loro vendetta. Trascorsero così una
ventina d’anni tra la prima occupazione degli asburgici, la successiva dei
francesi e la nuova dominazione austriaca.
Quando l’Austria ritornò a dominare quelle terre si diede
maggior impulso all’estrazione del carbone e l’abitato di Càrpano sul torrente
che si impaludava prima di gettarsi nell’Adriatico divenne un piccolo centro di attrazione per
le zone circostanti e per uomini sempre alla ricerca di un lavoro stabile
anche se assai gravoso.
Si edificarono nuove case, qualche edificio di pregio a
servizio della miniera e l’osteria del croato subì la concorrenza di altre
mescite.
I due cugini misero su famiglia e dovettero necessariamente
impiegarsi presso le miniere non esistendo
altre alternative. Solo allora vennero a conoscenza della tragica fine che
aveva fatto lo zio di Barbana e delle responsabilità degli altri congiunti:
quella storia veniva raccontata in zona come se fosse un episodio recente e
nuovi particolari, spesso inventati di sana pianta, andavano ad aggiungersi ad
altri che avevano un fondo di verità.
Nei giorni di festa rientravano a Cepich, raggiungevano il
lago e passavano alcune ore tranquille con le famiglie pescando o coltivando la terra. Vennero in
contatto con altre popolazioni di origine valacca insediatesi nei dintorni e con i morlacchi con cui la repubblica di
Venezia aveva ripopolato quella regione in passato falcidiata dalla peste.
Avevano messo al mondo una nidiata di figli e la loro vita
trascorreva, tutto sommato, abbastanza tranquilla. Alvise presenziò ai funerali
della madre e si riappacificò con il padre che, senza prestar ascolto a chi lo
consigliava diversamente aveva scelto, per amore, una strada impervia e ricca
di ostacoli senza mai scendere a compromessi con la propria coscienza. Questa
riconciliazione pose fine ad un periodo di grande travaglio morale e gli
restituì in parte quell’equilibrio interiore che aveva perduto dopo essere
venuto a conoscenza dei trascorsi della madre.
Con il ritorno degli
austriaci si rispolverò un vecchio progetto di bonifica del lago e furono
ingaggiati sterratori e altra manovalanza generica per porre rimedio ad una
situazione di degrado che rendeva poco
ospitali alcuni tratti della costa lacustre ed era causa delle febbri malariche
che colpivano gli abitanti dei dintorni. Pietro ed Alvise abbandonarono per
qualche mese le miniere e cercarono lavoro nelle bonifiche salvo poi tornare
alla primitiva occupazione quando i
lavori di risanamento della zona furono improvvisamente interrotti per mancanza
di fondi.
I loro zii finiti in carcere a Rovigno erano morti da tempo
mentre i figli avevano abbandonato
l’orfanotrofio di Pola adottati da varie famiglie nel lontano Friuli.
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