Uskok 9
USKOK 9
Nella casa di Rabaz Grgur riuscì a ritrovare, almeno in
parte, quell’equilibrio interiore che aveva perduto dopo i tragici avvenimenti
di Ragusa.
Doretta gli faceva gli occhi dolci, cercava di incrociarlo in
qualsiasi momento, si dimostrava assai disponibile e pronta a sacrificare la
propria innocenza sull’altare di una giusta causa.
Pur essendo aggraziata e possedendo un buon carattere, non
era il genere di donna che mettesse in agitazione l’uscocco: la defunta moglie
infatti la superava sia in bellezza che in sagacia, ma Grgur decise di
non andare troppo per il sottile perché Doretta era pur sempre un ghiotto bocconcino con tutti gli
attributi al posto giusto e per giunta, il che non guastava, straordinariamente
ricca.
Viziata si, ma entro limiti accettabilissimi o almeno così credeva.
Visto il suo evidente interessamento qualche progetto di vita
futura si poteva anche fare e lui di
progetti ne fece parecchi, da quelli più semplici ai più elaborati e cervellotici finchè la donna, indispettita da
tanto cincischiare, non lo mise con le spalle al muro e non solo
metaforicamente.
La carne, si sa, è
debole: il giovane era sottoposto a continue sollecitazioni ed alla fine capitolò rompendo gli indugi.
Nel giro di pochi mesi decisero di sposarsi e di metter su
casa ad Albona: un matrimonio non certo d’amore, almeno per quanto riguardava
Grgur, ma che negli anni si dimostrò solido come una roccia del Carso.
A volte ciò che inizia sotto buoni auspici termina in malo
modo perché si scambia l’attrazione fisica, che pure è elemento determinante di
ogni rapporto, per amore ma qui la
situazione era più complessa: comunque gli anni smussarono ogni possibile
ostacolo.
Subentrò infatti la complicità, il comune sentire, grazie ai quali ciò che in un primo tempo Grgur
riteneva di non poter condividere con Doretta
diventò il cardine di un equilibrato ed
indissolubile legame.
Complici Doretta e Grgur lo furono certamente perché si
spartirono le gioie ed i dolori di una vita tutta dedita al lavoro, aprirono
tre spacci di generi alimentari in altrettante località dell’Istria meridionale
ed allevarono cinque figli educandoli nel rispetto di quei valori in cui si
riconoscevano.
A quei tempi l’Istria non era tutta sotto il dominio
veneziano: a nord est una vasta zona dell’entroterra, una specie di cuneo che
comprendeva Pisino ed altre località
minori, era sotto dominio austriaco e
faceva parte della Carniola.
I confini non erano ben definiti ma, se qualche problema ogni
tanto si presentava, era in maggior parte dovuto allo sconfinamento di qualche
capo di bestiame o ai limiti degli appezzamenti agricoli.
La lingua franca, in entrambe le zone, era l’istro-veneto, ma
si parlava anche un dialetto croato soprattutto nelle parti più interne ed
isolate. A complicare il quadro generale esistevano delle piccole minoranze di
rumeni in Cicceria ed intorno al lago di Cepich più altri nuclei sparsi di serbi e bosniaci che,
come era successo per gli uscocchi, avevano lasciato le loro terre a causa
dell’incalzare degli ottomani o perché lì deportati dai lagunari per ripopolare
zone falcidiate dalla peste. I tedeschi occupavano quasi esclusivamente
posizioni di rilievo nella pubblica amministrazione e nelle libere professioni
e solo nei centri maggiori del territorio austriaco.
Nella parte soggetta a Venezia si erano insediate
anche famiglie provenienti
dall’entroterra friulano e, più in generale, dai possedimenti di
terraferma ed in minima parte dal bergamasco e dal bresciano.
Nel frattempo Nicola, rimasto solo come un cane in quel di
Càrpano, si lasciò trascinare da alcuni compagni in un vortice di sregolatezze
che col tempo avrebbero minato la sua
pur robusta fibra.
Prese a bere smodatamente ed a frequentare personaggi
equivoci dediti al gioco d’azzardo ed alla rapina.
Sempre considerando abominevole la condotta del fratello, che
in verità aveva fatto parecchi tentativi per toglierlo dalla miniera, un giorno
si presentò a casa di Bortolo, che era diventato sovraintendente agli scavi e,
dopo averne rocambolescamente rapita la sorella, chiese un riscatto per
liberarla dall’ovile in cui l’aveva rinchiusa. Un tentativo maldestro,
estemporaneo, dovuto più ai fumi dell’alcool che ad un’attenta valutazione dei
rischi cui si stava sottoponendo. La
manovra finì in un nulla di fatto: la donna venne rintracciata dai servitori e
Nicola, solo per intercessione del fratello, non concluse la sua assurda
avventura in prigione, ma fu comunque rinchiuso nei sotterranei di un palazzo di Albona.
La sorveglianza era piuttosto blanda: due volte al giorno gli
passavano i pasti e veniva vuotato il secchio dei bisogni. La stanza era
angusta con un piccolo pertugio da cui
penetrava la luce del giorno, ma il cibo era abbondante e variato.
Spesso Nicola aveva furiose crisi di astinenza, ma con il
passare del tempo riuscì ad affrancarsi dal vizio del bere.
A Càrpano gli era rimasto un solo amico, anche se in verità
non si trattava di una vera amicizia bensì di
un comune sentire dovuto alle origini: Jure era infatti anch’egli di
discendenza uscocca. I suoi genitori erano tra i pochi, scampati alla retata
austriaca, che riuscirono a rifugiarsi sulle coste istriane eludendo la
sorveglianza. Avevano più volte discusso della triste fine dei pirati sui
Gorianci ed entrambi immaginavano che il riscatto di quelle genti umiliate e
sottomesse fosse ancora possibile.
Giocando sulla sorpresa e sulla scarsa sorveglianza Jure
riuscì a liberare il minatore dallo scantinato in cui l'avevano recluso ed insieme
decisero di raggiungere a piedi i monti dell’entroterra per risvegliare lo
spirito bellicoso degli uscocchi.
Essi però si erano
ormai dispersi in decine di piccoli nuclei: alcuni erano diventati pastori,
altri contadini, altri ancora si erano messi al servizio di potenti signorotti
della zona di Karlstadt. Pochi erano riusciti a fuggire ad est seguendo il
corso della Sava.
Nessuno aveva più aspirazioni bellicose: le antiche epiche
gesta non facevano più breccia nell’animo dei giovani. Il vecchio comandante
era morto da decenni e non era ancora stato sostituito perchè non c’era nessuno
in grado di sostituirlo in una carica
oramai solo nominale: un generale senza esercito.
Mortificato, disilluso ed in preda al più cupo sconforto,
Nicola ricadde nel vizio del bere: lo ritrovarono defunto nel greto di un
torrente presso Pisino mentre cercava di
raggiungere Càrpano dove, con ogni probabilità, lo aspettavano per
rinchiuderlo, questa volta definitivamente, in galera.
Il suo compagno Jure, molto più concreto, constatata
l’impossibilità di riscattarsi da una situazione a dir poco penosa, iniziò a
corteggiare una sua coetanea per dare un senso a quella lunga trasferta che li
aveva fisicamente prostrati e moralmente distrutti.
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