Uskok 6

 USKOK 6

Dopo questi avvenimenti Ivan ed Eliza avrebbero potuto condurre una vita serena senza problemi economici.

Il rapporto con i vecchi compagni si era dapprima allentato per poi praticamente interrompersi perché, dopo il triste episodio di Cherso, nessuno di loro si voleva  addossare impegni gravosi senza la certezza di raggiungere un risultato tangibile. La speranza di ricostituire una potentissima flotta di agili imbarcazioni stava man mano scemando: le  ultime allungate scialuppe ed affusolate feluchine giacevano infatti semi carbonizzate nel piccolo porto di Segna.

Gli uomini più giovani e validi avevano cercato di impegnarsi in lavori che permettessero  loro di sopravvivere gli anziani, tra cui il comandante, vivevano di ricordi e non sapevano individuare, tra le nuove generazioni, chi avrebbe potuto mettersi alla guida di un popolo di disperati.

Le donne non incitavano più i loro compagni esortandoli a compiere nuove epiche imprese perché, dovendo ogni giorno lottare per la sopravvivenza, erano impegnate a mettere insieme il pranzo con la cena.

Non tutti gli uscocchi erano però dispersi sui Gorianci: alcuni avevano preso la via dei Velebit e più in generale dell’interno dei Balcani prima che gli austriaci intervenissero a Segna, altri si erano rifugiati sulle coste marchigiane o romagnole, altri ancora si erano messi a disposizione della Serenissima come marinai mentre i meno intraprendenti lavoravano alle dipendenze di qualche facoltosa famiglia di Karlstadt dove ricevevano stipendi da fame ed erano trattati alla stregua di animali.

Ivan ed Eliza dovevano trovare un luogo sicuro in cui rifarsi una vita e quel rifugio non poteva certo essere Venezia, né desideravano insediarsi entro i confini di chi li aveva traditi.

In un primo momento pensarono a Ragusa, la perla dell’Adriatico seconda solo alla Serenissima, poi giudicarono più conveniente raggiungere Ancona meno coinvolta in sterili controversie ed estenuanti dispute di frontiera e quindi, a loro parere, più tranquilla e sicura.

Ragusa infatti era incuneata, nel vero senso della parola, tra tre bellicosi vicini: gli ottomani, gli slavi dell’interno e Venezia, la più temibile,  che non vedeva di buon occhio delle interferenze in quello che considerava il mare di casa. Ancona si era invece ritagliata un piccolo territorio in terraferma, non dava fastidio a nessuno e non aveva intenti aggressivi almeno nell’immediato. Collaborava, ma per alcuni era molto  più di una collaborazione, con la Repubblica di Ragusa ed insieme si davano man forte contro l’ingombrante vicino della laguna. La città di San Biagio commerciava il sale di Sabbioncello, il cinabro, merci preziose dall’oriente e generi alimentari dall’interno dei Balcani facendoli transitare da Ancona verso la  Toscana, le Fiandre ed i paesi Fiamminghi.

Certo non poteva competere con Venezia, ma aveva un’amministrazione abbastanza liberale anche se esercitata da una ristretta cerchia di nobili. In questo Ancona l’aveva presa a modello ed in quell’epoca  di invidie, ripicche e colpi di mano, le due realtà si sostenevano reciprocamente con grande vantaggio di entrambe.

Intanto nella Carniola austriaca si cercavano i responsabili dell’uccisione del fornaio e di sua figlia e le popolazioni locali premevano sulle autorità affinchè si facesse luce su questo efferato delitto che tanto aveva impressionato gli animi semplici e timorati di Dio degli abitanti  locali.

Alla fine si trovarono i responsabili, quei  due  malavitosi che vivevano di espedienti, imbrogli ed estorsioni. I sicari, dopo aver incontrato Alvise e scoperto i suoi segreti progetti, immaginarono che, se avessero portato a termine l’operazione commissionata da un  esponente di una così facoltosa ed importante famiglia, avrebbero compiuto un salto di qualità nel ramo, se così si può definire, di loro competenza.

Inutile aggiungere che, appena catturati, tirarono in ballo il giovane veneziano indicandolo come il mandante del delitto, colui che li aveva assoldati e dotati degli strumenti per portare a termine la missione.

Alvise fu incarcerato a Postumia ed il processo che seguì fu una sciagura per tutta la sua famiglia: vennero revocati i diritti d’estrazione del mercurio dalle miniere di Idria ed i fratelli dovettero abbandonare il territorio in cui si erano oramai stabilmente insediati.

Marco morì prima che questo accadesse e non dovette quindi subire le conseguenze di ciò che il figlio aveva sconsideratamente architettato: cercando di porre rimedio ad una situazione perniciosa, egli ne aveva creata una ben peggiore.

Alvise rimase in galera per parecchi anni e le fortune della sua famiglia subirono un vero e proprio tracollo: restarono il palazzo di Albona, che in realtà non era poca cosa, alcune case a Rabaz e qualche terreno nella valle del Quieto.

Nel trattamento riservato a questa famiglia giocarono anche  motivi politici in quanto, dopo la sconfitta di Gradisca, l’Austria non vedeva di buon occhio i veneziani, ma questa non era una novità semmai  il peggioramento di una situazione trascinatasi per decenni tra aspri conflitti e finte riappacificazioni. Inoltre Vienna doveva dimostrare di saper ben gestire l’ordine pubblico  nei riguardi dei sudditi delle varie etnie ed in particolar modo di quelli di lingua slava. Gli abitanti del piccolo borgo di cui erano originari il fornaio e la figlia si agitarono in maniera così scomposta, inviarono petizioni, minacciarono una rivolta per cui ai giudici non rimase che usare la mano pesante. Esisteva poi, da tempo immemorabile, una certa rivalità tra gli abitanti della costa, per lo più di lingua istro veneta e quelli dell’interno che, seppur facenti capo a due amministrazioni diverse, ma in continuo contatto,  pativano una situazione di inferiorità economica e culturale

Eliza ed Ivan, in quei momenti molto distanti dalla Carniola, non vennero mai a conoscenza dell’accaduto, ma in caso contrario avrebbero probabilmente festeggiato a lungo perché la giustizia era andata giù pesante ed il nobile albonese aveva avuto la punizione che si meritava.

Come era lecito immaginare Ivan e la compagna fecero da tramite tra Ragusa e la repubblica del Conero. La città della Dalmazia non aveva infatti una lingua ufficiale: vi si parlavano correntemente il latino, che veniva usato per gli atti ufficiali, il dalmatico che andava però perdendo  importanza, l’italiano quasi perfetto dei toscani e le lingue ed i dialetti slavi, senza contare il turco e l’albanese. Ad Ancona però le cose funzionavano diversamente e talvolta le trattative commerciali subivano dei forzati arresti proprio a causa della differente interpretazione di alcune postille. Ivan,  ed in egual misura Eliza, erano dunque le persone più adatte per facilitare il transito delle merci: mettevano, in parole povere, il loro accreditato e prestigioso sigillo ad ogni contrattazione e successiva transazione senza parteggiare né per l’una né per l’altra parte.

Si erano dunque costruiti una solida base per prosperare economicamente e godevano della quasi unanime fiducia di venditori ed acquirenti.

Quelli che sino a pochi anni prima erano dei reietti, avevano saputo  sfruttare le  loro naturali attitudini essendo a lungo vissuti in quella babele di razze, lingue e stirpi diverse che era diventata Segna al culmine della propria fortuna.

Ivan ed Eliza restarono ad Ancona per più di cinque anni e fu un periodo tutto sommato tranquillo: il giovane raggiungeva almeno una volta al mese Ragusa mentre la sua compagna si allontanava malvolentieri dalla bella casa  a metà collina sulla strada per Numana. Il luogo era fresco e ventilato e spesso si intravvedeva la costa della Dalmazia, specialmente nelle giornate limpide e ventose.

Il montenegrino non si era affatto dimenticato delle sue casse: passato il momento più burrascoso Segna stava  riacquistando una discreta importanza commerciale ed era diventato luogo di transito per le merci da e per l’interno dei Balcani. Nulla a che vedere con il prestigio di un tempo,  ma il porto ricominciava a riacquistare prestigio.

L’anziano banditore, accertatosi che non esistessero pericoli imminenti,  uscì dal suo rifugio sui Velebit e si fece accompagnare da un giovane parente sin sotto la grotta di Pervicchio. Secondo le sue intenzioni il ragazzo avrebbe dovuto arrampicarsi sino all’imboccatura ma egli, ignorando la posta in gioco, si rifiutò categoricamente di mettere a repentaglio  la propria vita su quella scogliera umida, infida e, secondo il suo parere, inespugnabile. Dopo mille lusinghe ed altrettanti incitamenti con le buone e con le cattive il montenegrino decise di sfidare la sorte dimostrando di essere una persona ancora agile ed in piena forma pur avendo superato la sessantina. Si invertirono dunque i ruoli ed il giovane si posizionò sotto l’anfratto mentre l’anziano tentava di raggiungere, con le corde in spalla, l’ingresso della caverna. Circa a metà dell’arrampicata le forze però lo abbandonarono, cadde a peso morto su uno spuntone di roccia e s’inabissò nel mare profondo. Il ragazzo attese di vederlo riaffiorare poi, in preda al panico, fece ritorno al porticciolo da cui era partito. Certo le cose non sarebbero andate così se solo l’ex banditore avesse saputo che le sei casse avevano da tempo cambiato domicilio.

Si concludeva in maniera ingloriosa la vita di colui che, forse per la prima volta nella lunga storia degli uscocchi, aveva tradito la fiducia dei propri compagni.

 

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